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Le colpe dei brand sono le nostre colpe

World Cup Qatar 2022 - Elaborazione da un'immagine di Fauzan Saari
Tempo di lettura: 2 min

Ai Mondiali di calcio in Qatar ho rivisto un modo di fare branding che credevo vecchio, fatto di occupazione degli spazi, di loghi martellati nelle teste e di rinuncia al proprio ruolo sociale (a favore di un ruolo meramente commerciale). E forse la colpa è nostra.


Perché è importante: Capire i motivi che stanno alla base di questo ritorno al passato ci permette di valutare a che punto siamo con il brand activism.


Dall’elezione di Trump in poi gli Stati Uniti hanno prodotto ed esportato un modello di branding basato sulla presa di posizione e sull’attivismo sociale. Un modello che ha dimostrato come i brand possano essere una forza progressiva per il bene comune.

Qatar 2022 era un’occasione per proseguire su questa strada: i brand avrebbero potuto essere una voce decisiva per denunciare un lato malato della nostra società, basato sulla corruzione e sui diritti negati.

Ma non lo hanno fatto.

Nel libro Brand Activism Philip Kotler e Christian Sarkar hanno scritto che l’attivismo sta rapidamente diventando un comportamento atteso dal pubblico. Altre analisi, però, sembrano smentirlo.

  • Due consumatori su tre non prendono decisioni di acquisto in base alle convinzioni politiche o sociali, secondo una ricerca di Gartner dell’ottobre 2021.
  • Le persone che si oppongono all’attivismo dei brand sono più numerose e creative di quelle che lo sostiengono, secondo un recentissimo studio dell’Università di Helsinki su una campagna dell’azienda finlandese Fazer.

Se davvero crediamo che i brand debbano avere un ruolo sociale (e io lo credo), questo è il momento di dimostrarlo con i fatti. Ovvero, con i nostri acquisti. Cominciamo, ad esempio, con il penalizzare i brand che hanno trattato Qatar 2022 come un mondiale qualsiasi.

Come dicono gli americani: “Put your money where your mouth is”.


Per approfondire: