Quattro italiani su cinque credono che un’azienda che voglia migliorare il mondo debba iniziare dai suoi dipendenti. Se questo è vero, allora il mondo delle agenzie non è messo benissimo.
Lo scorso mese durante il festival della creatività IF!, dedicato alla Rivoluzione della gentilezza, su alcuni muri di Milano è apparsa una campagna di guerrilla ideata da “creativi, account, strategist, giovani e sottopagati, per la maggior parte in stage perpetuo” (come si definiscono su Instagram) che si sono ribattezzati Genitlissima.rivolta.
Tra i messaggi: Scusateci, ma davvero servono 15 mesi di stage per capire se assumerci? Oppure: Piangere dopo gli insulti è umano, non “troppo emotivo” grazie!
Nei giorni scorsi due persone, indipendentemente, mi hanno fatto tornare in mente questa “rivolta”. Una delle due ne ha parlato anche pubblicamente, quindi posso nominarlo. È Andrea Del Prete, un bravissimo freelance (date un’occhiata al suo sito) che ha pubblicato un post su Linkedin per denunciare una pratica diffusa: non citare i freelance che hanno collaborato con le agenzie nei credits dei lavori svolti insieme, anche quando non è presente un esplicito accordo di riservatezza.
L’agenzia è poi corsa ai ripari inserendo il suo nome, ma chiedendogli in cambio di modificare o rimuovere il post. Cosa che Andrea non ha fatto, dimostrando una grande onestà intellettuale. Ha invece aggiornato il post, raccontando il seguito.
Le due domande che Andrea solleva sono: Fin dove si possono spingere gli accordi di riservatezza? E quali restrizioni diventano un limite per la proprietà intellettuale del progettista?
Fino a qualche giorno fa pensavo che l’unica arma in mano ai creativi in stage perpetuo e ai freelance fosse dire di no. Un’arma che fa male anche a chi la usa, spesso più a chi la usa (non a caso la bio di Gentilissima.rivolta è: “Alla fine ci licenzieranno tutti”). Ma ora credo che parlarne pubblicamente, anche creativamente, sia anche questa un’arma.
Almeno per aprire un dibattito.