Quando raccontare diventa più importante di ciò che si vuole raccontare, la comunicazione fallisce. E negli ultimi anni ha fallito spesso.
Perché è importante: Non si può costruire un brand con un racconto di marca vuoto. Un brand è l’unione di forma e contenuto.
Paolo Iabichino ha definito ipernarrazioni quelle “storie iperboliche e saturate” che finiscono per “distogliere l’attenzione dal messaggio” (Scrivere civile, pp. 58-9).
Un esempio di ipernarrazione è lo spot di Natale del 2020 della Coca-Cola: il viaggio di un padre che porta la letterina della figlia fino al Polo Nord, poi torna a casa su un tir della Coca-Cola guidato da Babbo Natale per scoprire che il desiderio della figlia era semplicemente averlo a casa il 25 dicembre.
Iabichino definisce questa pubblicità: “Un viaggio dell’eroe talmente esagerato e ridondante da falsificare anche le intenzioni più sincere”.
Vale la pena ricordarci il significato profondo e meraviglioso della parola narrazione: deriva dalla radice indoeuropea gna-, ‘conoscere’, e vuol dire ‘far conoscere raccontando’.
La narrazione (lo storytelling, se preferite) è un mezzo che serve a “far conoscere” qualcosa. Ma se diventa un fine si accartoccia su sé stessa ed è inutile: attira l’attenzione, poi la dissipa.
Nessun brand può essere costruito con le ipernarrazioni. Così come un brand non è un logo, non è nemmeno una narrazione di marca. Perché il brand non è forma, ma l’unione di forma e contenuto: è quella narrazione unita a ciò che significa per le persone. Se non significa niente, il brand non esiste.
Per approfondire:
- Di ipernarrazioni, di attivismo, di civiltà e di molto altro si parla nel bellissimo saggio P. Iabichino, Scrivere civile. Pubblicità e brand al servizio della società, Luiss University Press.