Mentre nel mondo esplodevano le proteste dei No Global io avevo 12 anni e chiedevo per Natale una tuta della Nike. Solo qualche anno dopo, quando la furia del movimento si era ormai spenta (c’era stato l’11 settembre e i temi sociali erano cambiati radicalmente), ho scoperto quelle critiche ai grandi brand e per un po’ le ho abbracciate.
Il problema era questo: le multinazionali avevano delocalizzato la produzione, provocando una riduzione dei posti di lavoro nei Paesi più avanzati e sfruttando la manodopera a basso costo nel Terzo mondo (in laboratori non di loro proprietà). Il modello funzionava proprio perché esistevano i brand: queste entità intangibili erano così ammirate dai consumatori che permettevano alle aziende di vendere a prezzi alti dei prodotti di bassa qualità.
Cosa è rimasto di queste critiche?
Nel merito, le critiche erano giuste e le grandi aziende coinvolte in questi scandali sono corse ai ripari assumendosi responsabilità delle fasi di produzione che avevano delocalizzato. Ma su un piano più ampio i No Global avevano sbagliato bersaglio: il problema non erano le marche, ma il consumismo irresponsabile che impoveriva le persone e distruggeva l’ambiente. Un modello sociale di cui le marche erano solo un ingranaggio, non l’intero meccanismo.
Ci sono voluti due decenni, ma oggi sappiamo che quell’ingranaggio può anche invertire il senso di rotazione, può agire da forza positiva e non solo regressiva, può contribuire a cambiare il sistema. Dal 2000 ad oggi molti brand si sono dati degli obiettivi sociali (il famoso purpose), hanno costruito dei bilanci di sostenibilità e oggi sono diventati spesso attivisti sociali.
Se all’inizio del millennio le persone scendevano in piazza contro i brand, oggi i brand scendono in piazza con le persone.
P.S. Nel quinto episodio di Brandroad ne ho parlato con la Ceo di Saatchi & Saatchi Camilla Pollice, lo trovate qui.