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Abbiamo un problema con le fake ads?

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Tempo di lettura: 4 min

In rete circolano sempre più pubblicità realizzate da creativi o agenzie freelance senza rapporti con il brand pubblicizzato, con l'obiettivo di farsi conoscere.


Perché è importante: Non c'è nulla che possiamo fare per impedire che le fake ads esistano, ma possiamo conoscere il fenomeno e gestirlo al meglio.


Un paio di settimane fa il copywriter Tom Birts stava portando a spasso il cane quando si è imbattuto in una bella affissione della British Airlines. La pubblicità (creata da Uncommon) mostra i finestrini di un aereo in volo e il volto ammirato di un passeggero che guarda il panorama.

Tom Brits ha un'idea. Torna a casa e scrive su LinkedIn: «Se fossi easyJet […] farei una cosa del genere» e posta questa immagine:

La vera campagna di British Airlines accanto a quella finta di easyJet realizzata da Tom Birts.

La vera campagna di British Airlines accanto a quella finta di easyJet realizzata da Tom Birts.

L'idea è di sicuro divertente: «Stessa vista, metà del prezzo». E il logo easyJet tagliato che riprende l'affissione originale di British Airways e aggiunge un piccolo tocco di genio.

Tom Brits aveva già creato diverse spec ads («speculative advertising», ovvero ipotetiche pubblicità realizzate da creativi o agenzie senza rapporti con il brand pubblicizzato), ma questa fa il giro di LinkedIn. E in questo giro finisce per essere scambiata per una vera pubblicità.

Secondo Andrew Tindall, con questo caso e con il dibattito che ne è seguito «abbiamo raggiunto il picco delle fake ads».

Tindall ha riassunto su The Drum i principali punti di vista sulle fake ads, tra cui: è disinformazione; è un imbroglio; aggira le norme a cui i veri cerativi devono attenersi; può cerare problemi alla reputazione del brand; è inaccettabile usare la proprietà intellettuale di un brand senza il suo permesso.

Inoltre abbiamo ormai diversi esempi che mostrano quanto le spec ads possano trasformarsi in un problema per il brand. Uno su tutti è la finta campagna di Burger King creata dal social media manager Dylan Patel nei giorni della famosa foto alterata di Kate Middleton insieme ai figli – tre panini Chicken Royale e il testo: «La foto di una famiglia reale di cui puoi fidarti». Quando sono poi uscite le notizie sullo stato di salute di Kate Middleton questa finta pubblicità è diventata decisamente scomoda per Burger King (che ovviamente non aveva alcun ruolo nella vicenda).

Ma credo che il centro della questione sia un altro: non possiamo far scomparire le fake ads (anche se lo volessimo). Esistono; continueranno a esistere. Tutto quello che possiamo fare è decidere:

  • se combatterle,
  • o accettarle.

Prima di prendere una posizione, permettetemi di riformulare leggermente la questione. In realtà tutto quello che possiamo fare è decidere:

  • se combatterle è un buon investimento del nostro tempo,
  • o non sia meglio accettarle.

Posto in questi termini credo che ci sia una sola risposta: dobbiamo accettarle. Le fake ads sono parte del mondo in cui viviamo, un'altra variabile imprevedibile da aggiungere alla già difficile equazione di un mondo che cambia a una velocità mai vista prima ed è governato dagli eventi.

Quello che possiamo fare è investire più energie nel branding.

Da un lato, infatti, un brand forte con un significato chiaro ispirerà più probabilmente spec ads in linea con il proprio spirito e tono di voce, che potrebbero anche portare earned media (come l'idea di Tom Birts, che ha avuto successo online portando vantaggi indiretti a easyJet).

Dall'altro, quando le fake ads finiscono per creare un danno d'immagine, avere una buona reputazione consente di gestire meglio il problema e minimizzare i danni (come è accaduto a Burger King).


Per approfondire: