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Fare branding guardando i dati

Tempo di lettura: 3 min

Ciascuno di noi associa a un brand dei significati propri, che possono differire anche molto da una persona all’altra. Come è possibile allora fare branding? Negli ultimi anni l’analisi avanzata dei dati ha mostrato una strada per superare questa soggettività.


Perché è importante: Oggi nessuno può permettersi di ignorare i dati, nemmeno chi fa branding. Ma bisogna saper guardare ai dati giusti (quelli che danno informazioni di lungo periodo).


Pensate a tre parole o concetti che associate al brand Nike. Ora, se potessimo confrontare tutte le risposte che abbiamo dato scopriremmo che ciascuno di noi ha dato una risposta piuttosto personale e diversa dagli altri. (La mia è: superare i propri limiti, impegno sociale e tuta da ginnastica).

Eppure il brand Nike ha un significato univoco, ben definito e assolutamente efficace (è uno dei dieci brand più grandi del mondo). Come è possibile?

Ho trovato la risposta in un libro che apparentemente non c’entra nulla con il branding. Si intitola Explaining Humans ed è una sorta di manuale sul comportamento umano scritto da Camilla Pang, una persona affetta da una forma di autismo unita ad altri disturbi del comportamento che ha dovuto «imparare a capire le persone e il loro comportamento come si impara una lingua straniera≫.

Pang ha notato un parallelismo tra il movimento delle particelle e gli esseri umani: a livello microscopico le particelle si muovono in maniera del tutto casuale, eppure a livello macroscopico possiamo vedere uno schema coerente (questo tipo di fenomeno si chiama «moto browninano») – allo stesso modo il comportamento di ogni individuo è diverso da quello degli altri, eppure mettendo insieme molte persone si possono vedere degli schemi coerenti.

Dunque è perfettamente normale che i concetti che io associo a Nike siano diversi dai vostri. Ma se potessimo cambiare scala e mettere insieme i concetti che milioni di persone associano a Nike scopriremmo probabilmente che «superare i propri limiti» o qualcosa di simile è un tratto ricorrente, che «impegno sociale» è piuttosto presente e che «tuta da ginnastica» è stato detto quasi solo da me (chi ha ascoltato il mio podcast o letto il mio libro sa perché).

Negli ultimi dieci anni o poco più, il modo più efficace per cambiare questa scala sono stati i dati. Nell’ultima puntata di Brandroad Catarina Sismeiro, Managing director di Annalect, la divisione di Omnicom Media Group che si occupa dell’analisi avanzata dei dati, mi ha raccontato cosa si può leggere oggi nei dati. Ad esempio, unendo i dati con i modelli di comportamento si riesce spesso a capire se un acquisto è dovuto all’abitudine, alla preferenza per il prodotto o alla fedeltà al brand. Inoltre si possono ottenere altre informazioni preziose dai cosiddetti «dati non strutturati», ovvero informazioni raccolte analizzando il libero comportamento delle persone (i post, le ricerche online, le recensioni di prodotto, le telefonate ai servizi clienti, ecc.).

E siamo solo all’inizio. Fino a poco tempo fa gli analisti cercavano nei dati principalmente informazioni a breve termine, poco utili (se non dannose) ai fini del branding. Ma oggi si possono ottenere sempre di più informazioni a lungo termine che invece sono preziosissime per gestire un brand.


Per approfondire:

  • Nella quinta puntata della seconda stagione Brandroad, intitolata Il brand, nell’era dei big data, Catarina Sismeiro racconta in maniera molto più approfondita questi temi.
  • Il libro citato è C. Pang, Explaining Humans. What Science Can Teach Us about Life, Love and Relationships, Penguin 2020.
  • La copertina è un’elaborazione da un’immagine di Macrovector.