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Il brand activism esiste ancora?

Tempo di lettura: 3 min

Ho posto questa domanda a Paolo Iabichino nella prima puntata della seconda stagione del podcast Brandroad.


Perché è importante: L’impegno civile e sociale delle marche è una delle principali novità degli ultimi cinque anni nell’ambito del branding, resta da capire se si tratta di una tendenza passeggera o di un nuovo elemento strutturale delle identità di marca.


Paolo Iabichino è autore di molti libri tra cui Scrivere civile, che illustra bene il ruolo civico delle aziende con riferimenti alla scuola mediterranea di Antonio Genovesi, nonché della prefazione all’edizione italiana del libro simbolo dell’atteggiamento sociale e politico delle marche, Brand Activism di Philip Kotler e Christian Sarkar. Iabichino era stato ospite nell’ultima puntata della prima stagione di Brandroad, uscita due mesi prima dell’inizio dei Mondiali di calcio in Qatar, e insieme avevamo tracciato un quadro positivo e ottimista sul ruolo dei brand nella società.

Poi però guardando i Mondiali ho avuto la paura che l’attivismo fosse una moda. E ho deciso di tornare da Iabichino per chiedergli se condivide questa paura. Sono stato molto trasparente sull’obiettivo dell’intervista e lui ha accettato, e di questo devo ringraziarlo particolarmente perché non tutti i professionisti si presterebbero a interviste dichiaratamente scomode.

Mi ha risposto che ha condiviso questa paura, anche lui durante i Mondiali:

«Quando la Nike di Kaepernick non fa un plissé di fronte a quello che i Mondiali in Qatar hanno significato in termini di diritti viene meno quello straordinario castello narrativo che aveva conquistato il mondo. Anch’io ne sono uscito con le ossa rotte».

Tuttavia Iabichino mi ha ricordato che Kotler e Sarkar avevano già fornito un’analisi di questo fenomeno: anche il silenzio ha un costo.

È una dichiarazione che andrà testata nei prossimi anni, ma in cui credo. Proviamo a chiederci cosa succederebbe a Nike se svestisse definitivamente (e non solo per i due mesi dei Mondiali) i panni del brand impegnato sul tema dei diritti sociali? Cosa succederebbe se smettesse definitivamente di sostenere l’impegno sociale di atleti come LeBron James e Megan Rapinoe e di produrre contenuti ispirazionali sul potere delle donne, delle minoranze etniche o dei disabili?

Siamo nel campo dei se e dei ma, tuttavia qualche dato lo abbiamo.

  • Dal 2015 al 2020 la crescita media del valore del brand Nike secondo i dati di Interbrand è stata di +8,2% (con un massimo di +11,5% nel 2018 e un minimo di +6,5% nel 2020, che probabilmente risentiva della iniziale ricezione contrastante della campagna Dream crazy, lanciata nell’autunno del 2018, che aveva generato un boicottaggio da parte degli statunitensi conservatori ancora piuttosto presente nel 2019 prima di diventare un successo mondiale).
  • Il 2021 e il 2022, quando l’attivismo di Nike è stato più intenso, sono stati gli anni con la più alta crescita del valore del brand da quando Interbrand pubblica i dati (ovvero dal 2000): +23,7% nel 2021 e +18,2% nel 2022.
  • L’ultimo dato, relativo al 2023 e che dunque tiene conto degli effetti dei Mondiali giocati a novembre e dicembre 2022, è un +6,9%.

Ovviamente non bastano certo questi dati per testimoniare che il silenzio ha un costo che l’impegno dei brand è vincente anche sul piano puramente economico, ma è un buon punto di partenza.


Per approfondire:

  • Nella puntata 11 di Brandroad Il brand activism esiste ancora? Con Paolo Iabichino analizzo più da vicino cosa è successo durante i Mondiali in Qatar e cito altre esperienze di grandi brand come Mastercard e Corona che nel 2022 hanno ribadito l’atteggiamento impegnato dei brand ottenendo ottimi risultati.
  • I dati relativi al valore del brand Nike sono tratti dal Best Global Brands di Interbrand.