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La furiosa ricerca del senso della pubblicità

Tempo di lettura: 3 min

Quando siamo esposti a un messaggio (anche pubblicitario) andiamo inconsciamente alla ricerca di un senso. E, secondo Annamaria Testa, lo facciamo «furiosamente». Comprendere questo meccanismo è fondamentale per comunicare con efficacia i brand.


Perché è importante: Annamaria Testa è autrice di alcune delle campagne più memorabili della pubblicità italiana (tra cui «Liscia, gassata o Ferrarelle» e «Nuovo? No, lavato con Perlana»).


Scrive Annamaria Testa nel libro Le vie del senso (Garzanti, 2021):

Scrivendo, leggendo, parlando o ascoltando, è questa la cosa che dovremmo costantemente tenere a mente: il nostro cervello, ogni volta che si confronta con il linguaggio, sta andando in cerca di senso e lo fa a partire dalle strutture. Lo fa sempre, e da sempre. Lo fa intensivamente, creativamente. E, per molti versi, furiosamente.

Le cose migliori che la pubblicità abbia prodotto nella sua lunga storia le ha fatte riconoscendo, d’istinto, questa caratteristica degli esseri umani: dal rumore di fondo degli innumerevoli annunci che invitano a comprare emergono quelle pubblicità che chiedono la nostra partecipazione alla costruzione del senso.

Possiamo far risalire questo scontro tra modi diversi di vedere la pubblicità indietro fino al confronto tra Rosser Reeves e Bill Bernbach: Reeves, inventore della unique selling proposition, creava annunci martellanti che insistevano su una caratterista del prodotto che avrebbe dovuto convincere all’acquisto; Bernbach invece faceva ampio uso dell’umorismo e costruiva messaggi nei quali il pubblico era chiamato a partecipare alla costruzione del senso, colmando piccole reticenze che accendevano la sua curiosità.

La cosa più simile a questo meccanismo che si trova nei manuali di scrittura è probabilmente il curiosity gap, ovvero una piccola mancanza di informazioni che suscita la curiosità di ottenerle. Di solito lo si usa nei titoli dei post o degli articoli (e, in questo caso, bisogna usarlo con moderazione per non fare clickbaiting). Ma si può applicarlo a qualsiasi messaggio pubblicitario, che sia un’affissione, uno spot o qualunque altro contenuto prodotto da un brand.

Un esempio? Gli slogan creati da Annamaria Testa per le caramelle Golia che sfruttavano il potere di alcune parole poco usate, anzi probabilmente sconosciute al pubblico. Prendete questo slogan: «Sfrizzola il velopendulo». Leggetelo un paio di volte. Noterete che la vostra mente non si ferma di fronte al fatto che (probabilmente) non conosce le parole, ma cerca comunque di ricostruire il senso del messaggio. Se fosse stato scritto in maniera più comprensibile – ad esempio così: «Solletica piacevolmente l’ugola» – avrebbe in realtà attirato molto meno la nostra attenzione.

La regola d’oro, credo, è non sottovalutare mai il cliente: non serve essere troppo didascalici nel presentare un’offerta o un prodotto, si può giocare con il pubblico sfruttando il fatto che istintivamente vorrà capire il senso del messaggio. E, se siamo bravi, lo farà furiosamente.


Per approfondire:

  • La puntata 12 di Brandroad Il linguaggio dei brand (con Annamaria Testa), uscita venerdì scorso, tratta più approfonditamente questo tema. Annamaria Testa analizza le sue campagne più famose e mostra quali sono i motivi per cui hanno avuto successo.
  • Nella puntata si fanno molti riferimenti al libro che ho citato sopra: A. Testa, Le vie del senso. Come dire cose opposte con le stesse parole, Garzanti 2021 (prima edizione: Carocci 2004).
  • La copertina è un’elaborazione da una grafica di rawpixel.com.