Vai al contenuto

Il business dello storytelling

Tempo di lettura: 3 min

Secondo Scott Galloway tutti gli imprenditori sono «storyteller» e il confine tra racconto e truffa può essere tracciato solo con il senno di poi. Ma (aggiungo io) questo non vale per i brand.


Perché è importante: Raccontare una storia falsa può avere dei vantaggi, ma di sicuro ha anche degli svantaggi.


Scott Galloway è un imprenditore, autore di bestseller e docente della New York University. Il suo podcast The Prof G Pod è uno dei più apprezzati sui temi dell’imprenditoria e dell’economia. Quest’estate, nella sua newsletter No Mercy/No Malice, notava che nel 2021 sono nati in media due nuovi «unicorni» al giorno (le startup che superano il miliardo di valore). Poi aggiungeva che quegli unicorni, come tutte le startup, vendono storie.

«Nessuna startup ha senso. Noi (imprenditori) siamo tutti impostori che devono utilizzare una finzione (cioè una storia) che catturi l’immaginazione e i soldi degli investitori […]. Nessuna impresa che ho avviato, all’inizio, aveva alcun senso… finché non l’ha avuto. Oppure no».

Il tono di Galloway è sempre provocatorio e irriverente, ma il punto che coglie è corretto: se sei una startup stai vendendo qualcosa che non hai ancora realizzato, quindi possiamo dire che stai effettivamente vendendo una storia.

Questo fatto può essere visto come una truffa da qualcuno. E almeno in alcuni casi lo è stato, ad esempio con Theranos di Elizabeth Holmes che ha venduto la storia di un macchinario portatile per eseguire analisi del sangue su una goccia prelevata dalla punta del dito. Un macchinario che non aveva, non ha mai avuto e non è mai nemmeno andata vicina a produrre. Infatti secondo i giudici americani Elizabeth Holmes ha truffato gli investitori e ora sta scontando vent’anni di carcere.

Ma Galloway aggiunge che il confine tra racconto e truffa può essere tracciato solo con il senno di poi: «E se Holmes, con altri cinque anni e un altro miliardo di dollari, avesse realizzato un prodotto che funziona?». Dopotutto anche grandi aziende affermate, come ad esempio Microsoft, hanno iniziato vendendo tecnologie che non avevano ancora realizzato.

La riflessione di Galloway ci insegna qualcosa sul branding.

Anche i brand raccontano storie (i racconti di marca), solo che invece di farlo agli investitori lo fanno al pubblico. Il valore di un brand, così come il valore di una stratup, dipende da quanto fortemente le persone credono in quelle storie. Se il pubblico smette di credere nella storia di un brand, o gli investitori nella storia di una startup, quei brand e quelle startup falliscono. Solo che le storie delle startup sono più spregiudicate: infatti ne falliscono undici su dodici.

Ogni brand è nel business dello storytelling, lo stesso business descritto da Galloway. Ma affinché le persone credano in loro, i brand non possono raccontare delle storie troppo lontane dalla realtà. Una narrazione falsa o spregiudicata può dare risultati sul breve periodo (quelli che cercano le startup), ma sul medio-lungo finirà per avere più rischi che vantaggi.

Dunque sì, gli imprenditori e le startup sono nel business dello storytelling. Ma i brand no. Per i brand le narrazioni sono mezzi per raggiungere il loro pubblico, non il loro business.


Per approfondire:

  • Qui trovate la newsletter di Scott Galloway del 25 agosto (aggiornamento di una versione del 21 gennaio 2022) e qui la versione per il suo podcast letta dall’attore George Hahn.
  • Se volete approfondire la vicenda di Theranos il libro di riferimento è Bad Blood: Secrets and Lies in a Silicon Valley Startup (Knopf Publisher 2018) di John Carreyrou, il giornalista che ha fatto scoppiare il caso.