Vai al contenuto

La morte del brand

La morte del brand
Tempo di lettura: 3 min

Parafrasando il saggio «La morte dell’autore» di Roland Barthes, un brand deve morire per far nascere il suo pubblico.


Perché è importante: Ogni volta che un brand prende decisioni che hanno a che fare con l’identità di marca (con il logo, le confezioni, i messaggi che ha sempre trasmesso, ecc.) deve tenere presente che quell’identità non è del tutto sua.


I brand che amiamo o ammiriamo diventano qualcosa di nostro. È una sorta di usucapione dell’identità di marca: quando vediamo un brand per più e più volte, quando entra nei nostri ricordi e diventa parte del nostro vissuto, sentiamo quel brand come nostro.

Ma allora di chi è davvero un brand? Dell’azienda che ne detiene i diritti di utilizzo o delle persone che lo conservano nella loro memoria?

Questa non è una domanda che si incontra spesso nei libri di branding, ma è invece molto presente nella critica letteraria del Novecento. Fino alla metà del secolo scorso, infatti, l’autore di un’opera era considerato il proprietario di quell’opera, un po’ come un’azienda è proprietaria del suo brand. Per questo la critica letteraria dedicava molte energie a ricostruire l’intenzione dell’autore, studiandone la vita e le altre opere. Questo atteggiamento è cambiato nel 1967 quando il critico francese Roland Barthes ha pubblicato un breve ma influente saggio intitolato La morte dell’autore.

Con il concetto di ≪morte dell’autore≫ Barthes ha dato una forma definitiva e alquanto iconica a una serie di istanze che erano presenti da un paio di decenni nel dibattito letterario e filosofico. In particolare, al fatto che il significato di un’opera non debba essere determinato dall’intenzione dell’autore, perché nessuno può davvero conoscere le sue intenzioni. Ciò che determina il significato è piuttosto l’interpretazione del lettore.

Il concetto di ≪morte dell’autore≫ è complesso e controverso, ma è indubbio che con questa formulazione Roland Barthes abbia reso le opere d’arte più aperte: le ha tolte dal pieno possesso dell’autore e le ha consegnate ai lettori e alle loro libere interpretazioni. 

Qualcosa di simile avviene per i brand.

Anche se le aziende dichiarano le loro intenzioni attraverso dispositivi come la visione, la missione, il purpose, il manifesto, il mantra o il credo, la verità è che la stragrande maggioranza del pubblico di un brand non conosce questi dispositivi e non ne è nemmeno interessato. Ciascuno di noi fa esperienza dei prodotti, della comunicazione e delle iniziative di un brand e li interpreta liberamente. Insomma, facciamo nostri i brand, incuranti delle intenzioni dell’azienda.

In questo senso possiamo dire che il brand è morto. 

Scrivendo il finale della seconda stagione di Brandroad mi sono chiesto più volte se spingere l’analogia fino a qui, fino a dire che anche il brand è morto. È evidente che un autore non sta al lettore come il brand sta al pubblico, perché il brand è un’entità più complessa e sfaccettata. Eppure anche il brand produce delle opere: sono i prodotti, le confezioni, le pubblicità e tutte le altre comunicazioni e azioni – ovvero tutto quello che Andrea Semprini ha chiamato le «manifestazioni della marca», i significanti che rimandano al significato ultimo del brand. Ecco, con la morte del brand ho voluto dire semplicemente che quel significato non è affatto ultimo, che il pubblico ha la libertà di interpretarlo in maniera personale.

Ecco perché possiamo parlare di morte del brand, in senso metaforico e nell’accezione di Roland Barthes. E questo ci aiuta a rispondere alla domanda: di chi è un brand? Se il brand come autore è morto, non possono che essere le persone che amano o ammirano quel brand i veri proprietari.


Per approfondire:

  • Ho approfondito queste riflessioni nell’ultima puntata della seconda stagione di Brandroad, intitolata Di chi è davvero un brand, con l’aiuto dell’artista e pubblicitario Lorenzo Marini, fondatore, CEO e creative director della Lorenzo Marini Group.
  • La copertina è un’elaborazione dall’icona Born creata da Freepik.